05 giugno 2012

Io, una donna alla guida di un Overland


di Nikki Hall

Nel 1996, a ventotto anni, mi sono stancata della mia banale vita in Inghilterra. Lavorare duro come Senior Sales Consultant mi aveva ricompensato con una casa, un solido conto in banca e una buona vita sociale, ma mi mancavano le sfide eccitanti.

Unica donna dei cinque trainee, ho iniziato a chiedermi chi me l’aveva fatto fare, quando ci hanno chiesto di smontare motori per poi riassemblarli. I ragazzi, ovviamente, hanno dimostrato una fastidiosa (per me) attitudine alla meccanica, ma sono stati pazienti con me, quando si è trattato d’imparare faticosamente bagattelle come il cambio dell’olio, le riparazioni dei guasti e simili altre amenità. Ho tenuto duro, però: se un giorno fossi riuscita ad avere il mio camion nei luoghi selvaggi d’Africa, cazzo, sarei stata capace di aggiustare qualunque cosa. In cambio, ai maschietti ho spiegato come districarsi in cucina. O meglio, come preparare un cibo saporito per 35 persone, senza budget e buste di alimenti liofilizzati. Alla fine ce l’ho fatta, ho conseguito la patente per i camion e ho frequentato un corso di pronto soccorso davvero speciale, dai morsi di serpenti velenosissimi alle ferite da mine antiuomo, dai colpi di caldo alle malattie tropicali.

Dopo sei mesi, è finalmente giunta lora del mio primo viaggio come trainee: dal Nepal a Londra. Ovvero, tre mesi e mezzo e ventimila chilometri per imparare tutto il necessario su percorsi, paesi, lingue, religioni, popolazioni e, ovviamente, le dinamiche di gruppo. Impressionante, il contrasto tra lavere ogni genere di oggetti e strumenti al lavoro in Inghilterra, e il doversi arrangiare come autista di Overland. Ho anche dovuto ammettere quanto poco io in realtà sapessi di meccanica, malgrado le lezioni in patria. Ogni volta che qualcosa andava storto, il problema principale era capireil perché. Una volta identificato il problema, il più era fatto. Unincipale era capire.lgrado le lezioni in patria.a di Overland. la dinamica rumore martellante, tanto per dirne una, può essere migliaia di cose. Ho imparato a non perdermi danimo, prendendomi le mie responsabilità.

In quanto all’essere una donna, ho capito ben presto di avere un qualche vantaggio, a patto di sapermelo giocare. Non capita spesso, di vedere donne occidentali alla guida di pesanti camion in regioni remote, come il nord del Pakistan. In molti posti, sono stata accolta con gli onori riservati a leader politici o militari. Bombardata di domande sul mio stato civile, l’età, il numero di figli etc, spesso me la sono cavata meglio dei maschietti. Ai posti di blocco, ho sempre sfruttato il fattore sorpresa: loro mi guardavano a bocca aperta, io sorridevo e passavo.

Una volta, in Malawi, siamo rimasti bloccati nel fango per quattro giorni, col camion pericolosamente inclinato e sotto una tempesta tropicale incessante. Uomini e donne dai villaggi vicini sono arrivati per aiutarci a uscire da quella situazione. I maschi trovavano molto divertente il fatto di prendere ordini da una donna in una situazione come quella, mentre le donne volevano a tutti i costi mostrarmi i loro figli. In caso di guasti, ho conosciuto pochi maschi capaci di restare a guardare una donna mentre aggiusta un motore. Un uomo che ti toglie di mano una chiave inglese e ti fa segno di lasciare fare a lui, beh, è un mezzo insulto: dovevo dimostrare di sapermela cavare.

Ma a volte, l’essere donna è una grande scocciatura. Uno svantaggio. In India, ci siamo fermati per pranzo e come al solito siamo stati circondati da una folla di curiosi. Tra loro c’era anche un uomo seminudo e dall’aria selvaggia. Beh, quello a un certo punto mi è saltato addosso, mi ha caricato sulle sue spalle e se non mi avessero salvato i passeggeri, chissà che fine avrei fatto. In Pakistan, l’autista di un camion ha continuato a zigzagare per chilometri impedendomi di sorpassarlo, non appena si è accorto che ero una donna. In Iran, spesso non mi è stato permesso di rivolgermi direttamente agli uomini, malgrado fossi completamente intabarrata in un vestito nero. Dovevo riferire ad un passeggero, quello parlava all’iraniano che gli rispondeva, e via di questo passo; oppure dovevo aspettare che gli uomini bevessero il the. O ancora, molte volte mi presentavano conti salatissimi perché pensavano che io, in quanto donna, avrei pagato senza fiatare, perché contrattare non mi era concesso. Sapete una cosa? Me ne sono fregata.

Dopo un po’, senti il bisogno di staccare. Ma è come una droga: devi tornare sui tuoi passi. Ve lo immaginate, cosa si prova a guidare un pesantissimo camion attraverso i luoghi selvaggi d’Africa o Asia? E poi, l’avere appreso così tante nozioni di meccanica per sprecarle su un’utilitaria nel traffico cittadino… 
Dov’è il divertimento?

(*) leggi l'originale in inglese: RoadMama:MyLifeasanOverlandTruckDriver

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